Dialogo con Luciano Gualzetti – #1

Appuntamento alle 8 del mattino nel suo ufficio, l’ufficio di presidenza della Caritas. Luciano ci ha accolti con un espresso in capsula. Alle sue spalle, una meravigliosa e variegata collezione di piccoli alberi ritagliati da fogli di metallo.

Davide

La prima domanda che voglio porti è: da dove inizia il Design della Cura per una persona come te, che ha una responsabilità e un compito così particolari? Tu hai una visione e un’impronta che devono essere sia da presidente che manageriale, di indirizzo e visione, ma l’oggetto del tuo fare è molto delicato, perché si chiama uomo. Se dovessi trovare delle affinità, le trovo con l’educatore, con il maestro, perché, oggi più che mai, anche questo è un lavoro-missione molto delicato. Le cose cambiano anche in base all’esigenza e all’anima dei tempi.

Per cui ti chiedo, come e con che tipo di stato d’animo comincia per te il Design della Cura?

 

Luciano

Quello che adesso sto ricoprendo io come incarico, è il direttore di un organismo molto particolare, la Caritas, un’organizzazione – o come lo chiamiamo noi della Chiesa, organismo – che vuole aiutare tutti e parte dalla cura dei poveri. Da questa prospettiva, riuscire a portare tutte le persone a rendersi conto che, se vogliono essere cristiani, se vogliono essere umani, uomini fino in fondo, devono prendersi cura degli altri.

La prospettiva che la Caritas cerca di promuovere è appunto quella di non rimanere indifferenti alle persone che sono oggi ai margini, in difficoltà, senza dignità, per cercare di fare tutto quello che è nelle nostre responsabilità personali, ma anche istituzionali. La responsabilità di portare le persone a rendersi conto che devono uscire da sé per realizzarsi fino in fondo non è solo della Caritas, ma anche delle organizzazioni. Le aziende, le istituzioni, le stesse realtà del terzo settore devono cercare di capire che quella è la strada per la piena realizzazione delle loro missioni, perché se si dimenticano delle persone più fragili, che in genere non sono portati a considerare perché non sono consumatori, pertanto non sono persone che “contano”, la comunità poi si sfalda. Ci illudiamo di creare delle piccole comunità che tengono, molto identitarie, molto forti, ma prima o poi si frantumano perché appunto non consideriamo l’umanità che ci circonda, ci interpella, ci incontra. Noi possiamo escluderli con barriere, ai confini piuttosto che nelle norme, però tutto questo alla fine corrode, avvelena le comunità e il veleno eventualmente si ritorce contro gli stessi membri che avevo incluso come gli unici che sono degni della mia considerazione, che poi saranno la mia famiglia, la mia comunità, il mio quartiere, la mia città.

La Caritas ha questo compito, riuscire a far vedere lo sguardo nei confronti di coloro che sono in difficoltà. È un vantaggio ed una responsabilità per la comunità stessa proprio per costruire una comunità vera. Qualcuno parla di “comunità di cura”, la comunità che si deve far carico: sono tutte prospettive che aiutano la comunità a essere se stessa.

Il compito della Caritas, secondo me, è quello di aiutare, innanzitutto la comunità cristiana, a riconoscere che questo sguardo è lo sguardo del Dio che cerchi di annunciare, che non è altro che un Dio che ha addirittura mandato suo figlio “per essere se stesso”. Nell’Eucaristia noi diciamo “fate questo in memoria di me”. E’ lo stile di Dio: “fate questo” è Dio che è morto in croce, che dona la sua vita. Quindi fare memoria di questo Dio, assumere il suo stile, vuol dire donare la vita. E’ la misura dell’amore che è totale, cioè non può avere confini né limiti… poi nessuno di noi è capace, ci deve essere qualcuno che ci aiuti. 

Dio dice anche “l’avete fatto a me. Ogni volta che avete fatto questo a uno straniero, ad un ammalato, ad un assetato, ad un affamato, l’avete fatto a me”: un laico fa questo perché capisce che quella è la vera dignità dell’uomo e va riconosciuta. La religione cristiana ti dice che Cristo lo trovi nel povero. Quindi la carità è una grossa responsabilità. 

Mi hai chiesto da dove comincia il Design della Cura nella Caritas: dal mostrare a tutti i cristiani che parte da lì, nel vedere l’altro da sé e saperlo ascoltare, accogliere ed aiutare.

 

Davide

Spesso la Caritas, ma anche altre istituzioni cristiane cattoliche, sono percepite come aiuto, come un riparo dove dar da mangiare. Invece la cosa che più mi colpisce in quello che dici, è che si tratta di un vero accompagnamento. Quello che conta è ristabilire un rapporto, quello che conta è ricucire una comunità, perciò ristabilire i legami, ricongiungere ciò che si è strappato, ciò che si è allontanato.

Per cui è formazione, ossia dar forma, per questo il paragone del maestro con i ragazzi. Ma anche del professore universitario, se ha veramente coscienza di ciò che ha davanti, non trasmette una disciplina, ma attraverso la disciplina trasmette una forma. L’uomo laico sente questa necessità di guardare all’altro, mi riferisco al laico che comunque va alla ricerca del perché della vita, magari credendo in nessun dio, ma cercandolo. È evidente che in questa sua tensione, se positiva, sviluppa valori simili a quelli del cristiano. 

 

Luciano

Noi, come cristiani di questa epoca, siamo cresciuti nel post-concilio. Il concilio ha affermato uno stile, una postura della Chiesa che non poteva più essere quella che insegnava e basta, ma che doveva anche ascoltare il mondo, doveva riconoscere che nel mondo c’erano tanti segni di questo Dio, di questo Spirito che doveva essere letto – anche Papa Giovanni XXIII ha chiamato i segni dei tempi, che dovevano essere ascoltati.

Una delle affermazioni più belle del concilio è che tutto ciò che è umano è cristiano, e tutto ciò che è cristiano è umano. C’è un riconoscimento del mondo, della corporeità, dell’umanità che va valorizzata, perché ti dice tanto di quello che è il Dio che in qualche modo devi riconoscere e affermare.

Uno dei frutti del concilio è proprio la Caritas. E Paolo VI, a proposito di maestri e di educazione, ha incaricato la Caritas di svolgere un ruolo di cambiamento, di trasformazione del mondo a partire dai poveri. C’è quella famosa frase – che ho anche appeso in ufficio – che dice che l’aiuto è al di sopra dell’aspetto materiale del dare un tetto, dare un letto, dare un pasto: “Al di sopra dell’aspetto puramente materiale della vostra attività emerge la sua prevalente funzione pedagogica, il suo aspetto spirituale che non si misura con cifre e bilanci, ma con la capacità che essa ha di sensibilizzare le chiese locali e i singoli fedeli al senso e al dovere della carità in forme consone ai tempi” (Papa Paolo VI, Primo Convegno della Caritas Italiana 1972). Cioè la Caritas è se stessa quando riesce a innescare dei processi di cambiamento nei poveri, che chiaramente vengono da noi, hanno bisogno di andare verso una vita dignitosa e quindi gli si deve dare un’opportunità, la possibilità di cambiare la loro condizione, ma soprattutto cercare di riconoscere che sono persone che possono essere protagonisti del loro percorso. 

 

Davide

Bisogna ripristinare il sogno dentro queste persone.

 

Luciano

E poi, partendo da lì, leggere cosa non funziona di un sistema, le strutture di peccato, i sistemi malati.

Papa Francesco denuncia molto questo sistema economico che uccide. Allora, come trasformare? Si parla tanto di inclusione, ma noi ormai abbiamo quasi timore a dire inclusione. Cioè, queste persone sono state escluse da un sistema malato che forse è meglio trasformare, per far sì che quando si ricostruisce quella comunità, non si creino più le condizioni per avere nuove esclusioni o nuovi poveri. Quindi c’è un tema di soccorso, di aiuto, ma anche di cambiamento.

La funzione pedagogica che a Caritas è stata assegnata da Paolo VI, e che Caritas ha nel suo DNA, è dunque quella di trasformare e cambiare le cose nelle persone, nei sistemi, nella prospettiva. 

Quindi non dare più per carità quello che è previsto per giustizia, riconoscere che ci sono dei cittadini che hanno dei diritti. Non occuparsi degli effetti, ma rimuovere le cause, e poi prestare aiuto in modo tale che questo non sia eterno, ma emancipante, cioè che questa persona non abbia più bisogno del mio aiuto, diventi autosufficiente. 

Quando io mi interrogo su cosa fare come Caritas, mi chiedo come aiutare le persone di buona volontà che vogliono fare del bene, a farlo nel migliore dei modi con un’azione che non sia auto-appagante, ma liberante, sia per chi lo fa, ma soprattutto per le persone che si incontrano. Dall’altra parte, cercare di incidere, quindi di avere questa prospettiva pedagogica trasformativa, di cambiamento, non solo nei confronti dei volontari, ma soprattutto nei confronti dei poveri, che devono vedersi come protagonisti di queste azioni. Poi anche verso le aziende e le istituzioni, cercando di creare un processo di cambiamento che porta tutti a riconoscere che responsabilità possono assumersi in forma diretta per aiutare, ma in un’ottica di trasformazione, di cambiamento, di autonomia, di rivoluzione. Se vuoi, nel senso bello del termine, di cambiamento totale del modo di vedere le cose. 

 

Davide

Di vivere, perciò. E questo è un punto molto interessante. 

Parlando del ruolo della Caritas, dicevi che questa non è solo un’azione rivolta ai poveri, ma in realtà è una visione rivolta a tutta la società. Quindi anche un’azienda deve assumersi la responsabilità di un processo diverso, di una visione diversa del business. Cosa pensi di questa nostra decisione di dichiarare che una delle modalità con cui ci muoviamo è la cura, o meglio ancora, un progetto di prendersi cura delle cose?

Metti che tu adesso, idealmente, sei il presidente di una società. Il tuo procedere, che in questo caso è il profitto, perché tu devi assicurare il bene dei tuoi dipendenti, è evidente che vada verso la cura, ma tu, dentro di te, senti che questa cosa può veramente essere una chiave del profitto, una chiave di successo?

 

Luciano

È importante che, seguendo le regole del mercato, del profitto, della scienza, un’azienda si ponga il problema di come riuscire a tradurre questa prospettiva di cura della comunità, dei più deboli, di coloro che ci lavorano, in strade e azioni concrete.

Io mi rendo conto, quando mi rapporto con le aziende, che ci sono realtà o imprenditori che interpretano il loro lavoro, fermandosi solo al profitto, senza considerare gli effetti delle loro scelte, che possono creare dei pasticci per la stessa azienda, ma anche per i clienti o per le persone che ci lavorano dentro, o per le persone della comunità dove questa azienda vive. Bisogna considerare tutta la filiera, tutte le conseguenze delle proprie scelte, anche nei confronti degli ultimi, nei confronti dell’intera comunità.

Pensiamo ad un’azienda che mira solo al profitto e non considera gli effetti sull’ambiente, sulle persone che vivono quel territorio, ma anche sulle future generazioni. Io penso che considerare anche questi effetti, che magari non danno un ritorno economico immediato, sia il vero compito dell’imprenditore capace ed efficace.

È chiaro che sembra teorico, però se manca non solo una sensibilità personale, ma anche una lungimiranza, l’impresa prima o poi salta, perché non ci sono le condizioni.

Quindi il fatto che ci si ponga il problema, come impresa, come azienda, di capire com’è il benessere dei propri lavoratori, ma anche capire il bene che l’impresa può fare nei confronti del territorio che abita, nei confronti dell’ambiente, nei confronti anche delle future generazioni, è l’unico modo per avere delle imprese che poi hanno una solidità e una capacità di profitto che non sia solo economica, ma sia veramente profittevole.

 

Davide

Perciò il tema è quello dell’imprenditore illuminato, l’imprenditore che ha una visione, che ha un senso del tutto. Per cui quando si muove, le sue azioni sono il risultato di una visione consapevole dei temi e dei problemi della vita.

A mio avviso questo è il punto fondamentale tra la visione liberatoria del cristiano, e la visione laica dell’uomo che ha un forte desiderio di capire, un forte desiderio di ricercare.

Perché non è che nel cristiano viene a mancare la volontà di capire e desiderare: la fede è una conquista quotidiana.

 

Luciano

Rimanendo sull’esempio dell’azienda, il bravo imprenditore, cristiano o non cristiano, è quello che crea lavoro, crea ricchezza, la condivide, rispetta l’ambiente, paga le tasse, nel senso che ha una sua responsabilità nei confronti di tutti, cerca il bene comune. Deve essere umile ed imparare le leggi del mondo, le leggi dell’economia, le leggi della finanza, e inserire questa capacità di dare opportunità a tutti e poter beneficiare di questa ricchezza, di questo sviluppo. E gli imprenditori cristiani bravi, sono quelli che hanno imparato bene a fare l’imprenditore, non a dire il rosario.

 

Davide

In questo caso il design della cura, applicato dall’imprenditore che ha una visione ampia e tiene conto di tutto, va a beneficio della propria impresa, nel rapporto col cliente. Presentarsi con una visione ampia, dove collocare la strategia del cliente, è una cosa molto importante, perché il cliente si sente rassicurato.

 

Luciano

Io a quel livello non sarei capace, nel senso che il mio mestiere è un’altra cosa. Però intuitivamente capisco che bisogna, con tutte le leve economiche e tecniche, promuovere il bene, promuovere lo sviluppo che sia possibilmente accessibile a tutti. 

Qui c’è il tema di alcuni settori che creano profitto nell’immediato, ma poi producono danni nel mondo; attività imprenditoriali che devono essere allertate. Ad esempio, sul tema dell’azzardo si cerca di creare nuovi clienti, che è legittimo dal punto di vista aziendale, però poi provocano dipendenze, disturbi patologici. In qualche modo noi dobbiamo dire a questi imprenditori che forse attraverso i colori, le musiche, il loro modus operandi crea dei meccanismi per intrappolare le persone. Questo è fare impresa?

Dobbiamo capire tutte le conseguenze nell’ecologia umana, psicologica, e come evitare che tutto questo accada, perché chiaramente crea profitto, crea lavoro, ma è una cosa che forse va ripensata. Io non voglio essere quello che dice “vade retro Satana”, tutti abbiamo le nostre contraddizioni. Però, compito di chi si mette in un’ottica di cura è quello di vedere che ci sono degli effetti, magari non desiderati, che schiacciano, intrappolano, schiavizzano le persone, e questa cosa, in qualche modo, va contrastata. Quindi tutto il tema dell’industria bellica, l’azzardo, la droga, andrebbero ripensati.

 

Davide

Rispetto a questi intenti, a questo costante lavoro, qual è stato, concretamente, uno o più momenti veramente difficili?

Ossia, quando le difficoltà erano così violente che hanno messo in discussione.

 

Luciano

Nella mia esperienza, ormai quasi trentennale, il momento del Covid è sicuramente stato drammatico, dal punto di vista umano, perché ho visto morire volontari, preti che ci aiutavano, e poi tanto dolore in giro che ci siamo domandati “Cosa possiamo fare, cosa dobbiamo imparare?”. Tra l’altro proprio oggi è il quinto anniversario del primo caso di Codogno, nel 2020, e mi ricordo che il direttore di Lodi mi ha chiamato e ha detto «Ma qui ci stanno chiudendo tutti!». Io non capivo cosa stesse dicendo. «Ci stanno chiudendo! Ci chiudono le mense», e mi chiedevano cosa volesse dire, cosa stava succedendo.

Quello è stato veramente un momento che ci ha costretto a rivedere, a ripensare tutto. Ancora oggi mi domando cosa non abbiamo imparato di quel periodo lì, perché magari andiamo avanti a fare le stesse cose che facevamo prima, senza aver imparato. A proposito appunto di cura, io mi ricordo anziani che piangevano perché non potevano andare al centro d’ascolto, e dicevano «Come facciamo? C’è gente che ha bisogno, noi abbiamo gli assistiti, ma non possiamo uscire». Oppure reti di Milano che ricevevano finanziamenti, che si sono sfaldate perché non c’erano più le idee chiare su cosa fare. I parroci che ci chiamavano e ci dicevano «Ma qui sono spariti tutti, cosa facciamo?». Giovani che invece arrivavano e dicevano «Possiamo fare qualcosa?». 

Quindi, abbiamo dovuto rivoluzionare tutto. Tante cose negative, tante sofferenze, le bare, le strade vuote. Io che venivo giù per tenere aperto il Refettorio, quindi avevo i permessi per girare, facevo da Lecco a Milano in mezz’ora, non c’era nessuno. Penso che in quel periodo di morte, perché si può solo definire così, abbiamo messo in discussione tante cose. Infatti ancora oggi, metà delle chiese non dico che sono vuote, però insomma, forse alcuni modelli che avevamo, questa enfasi sulle reti, dobbiamo in qualche modo ripensarli.

Per questo vogliamo iniziare le “Cattedre della Carità” su diversi temi che ci hanno provocato, come ad esempio ripensare oggi la Caritas davanti alle sfide che ci stanno attraversando. In fondo, forse la pandemia ci ha convinto in maniera definitiva che siamo in un’emergenza permanente.

Noi continuiamo a dire di non fare le cose per emergenza, però la pandemia, la guerra, l’inflazione, adesso non so cosa succederà con Trump, questa idea che l’ONU non conta niente, mettersi insieme in Europa non conta niente, vincono i dittatori, vincono i più forti. È il contrario di quello che noi abbiamo sempre cercato di portare avanti: la cooperazione, l’inclusione, tutti hanno diritto a una vita dignitosa; le immigrazioni come segno di un mondo che non va, di un’economia che non va, eccetera, e questi qui ti dicono “No, le cose vanno così: prima l’America, prima gli italiani”. 

Certamente il Covid è stata una cesura, ci ha fatto vedere cose che non funzionavano e lo dicevamo da tempo: gente che non riesce ad avere i diritti per andare a scuola, per curarsi, per avere un lavoro dignitoso. Anche la città di Milano è esplosa e cresciuta, ma sulla pelle di chi? Di tanti lavoratori che non hanno uno straccio di contratto, non possono permettersi la casa. Quindi, per noi di Caritas la postura è l’ascolto, è l’incontro dei più poveri per capire cosa non va nella loro vita e cercare di cambiarla, ma soprattutto cosa non va nel sistema.

Noi abbiamo visto alcune cose che non funzionano, ma con quali strumenti riusciamo a mostrare ciò che non si vede e far intravedere alcune strade su cui bisogna lavorare insieme? La Caritas da sola non può farlo, noi al massimo diamo un pasto, un tetto, un letto, un vestito. Bisogna creare delle alleanze tra istituzioni, imprese, chiesa, il terzo settore, affinché vadano tutti in una stessa direzione.

Adesso sembra che la direzione non sia quella giusta perché è perdente, perché vincono altri, però a maggior ragione, proprio come un papà, quando c’è un figlio che non capisce, non bisogna mollare, bisogna insistere. Non bisogna rassegnarsi, bisogna creare le condizioni perché le cose possano veramente cambiare, mettendosi insieme.

 

Davide

Hai fatto riferimento a Milano e questa è una domanda importantissima.

È evidente che Milano da prima di Expo ha avviato un processo di sviluppo che ha oggettivamente portato molta ricchezza e anche un movimento di persone altospendenti, ma sono saliti i prezzi, la gente non può più comprare una casa.

Hai detto un’altra cosa che a me è piaciuta, ovvero che questa cosa non va affrontata solamente da un soggetto, ma tutta la comunità si deve mettere assieme, nel senso che gli imprenditori, gli sviluppatori, gli urbanisti, devono dialogare con il Comune, con la Chiesa, con le associazioni civili, per trovare un adeguato equilibrio.

Questo è un auspicio che ti fai, perché la critica contro il lusso, chiamiamolo così per capirci, è stupida e sterile. La critica sta nel fatto che non ci sia comunione e relazione con tutte le comunità in modo tale da creare una società equilibrata.

 

Luciano

Quando si parla di una città, di un quartiere, di un comune, bisogna mettere insieme tutti coloro che vogliono bene a questa città, che si domandano qual è il bene vero, soprattutto per le future generazioni. E questo vuol dire appunto mettersi insieme, ascoltarsi, entrare in una logica costruttiva di alleanza, di buon vicinato e domandarsi quali sono le condizioni perché tutti possano avere un posto.

Non voglio essere idealista, però in una famiglia con una persona “debole”, in genere tutti si rimboccano le maniche affinché questa abbia un posto. Tanto più se la ricchezza cresce, perché in una famiglia povera, il disabile, piuttosto che il fragile, è sempre trascurato perché bisogna lavorare, ma in una famiglia che cresce, che si sviluppa, ci sono le risorse per considerare anche coloro che non ce la fanno. Allora, Milano sta diventando veramente una città esclusiva, nel senso che esclude quelli che non si possono permettere una casa, agli studenti che arrivano dovrebbero fargli i ponti d’oro per arrivare all’università, invece hanno dovuto mettere le tende per dire che non ce la facevano, e così i lavoratori. Quindi io non ci posso credere che una città come Milano, intesa come Città Metropolitana, non abbia le risorse, le intelligenze, la creatività per trovare delle soluzioni per accogliere e per tenere dentro le famiglie che già ci sono, migliorare le case popolari o creare degli studentati, dei pensionati o comunque delle case per i nuovi arrivati. Poi capisco che non bisogna ragionare solo sulla città di Milano, ma sulla Città Metropolitana, quindi quando si parla di servizi sociali non è solo come aiutare le persone in difficoltà, ma per esempio i trasporti sono una condizione fondamentale perché una persona possa accedere alla città ed ai suoi servizi

 

Davide

Fa parte dell’ecologia della società, della sostenibilità della società.

 

Luciano

Quindi bisogna veramente entrare in una logica in cui, considerando la realtà per quella che è, e quindi i bisogni reali delle famiglie, delle persone, dei lavoratori, rendere Milano una città che riesce a dare a tutti la possibilità di lavorare, di istruire i propri figli, di avere un futuro e di creare una città che ha una visione comune.

Poi è chiaro che ci deve essere un progetto appunto che pensa la città del futuro, la “Milano del futuro”.

Vince la destra, vince la sinistra, ma almeno i fondamentali devono essere per tutti e condivisi da tutti, perché se ci diamo come prospettiva la prossima elezione, e ogni anno c’è un’elezione, è evidente che non costruiamo nulla.

Forse sono troppo idealista.

Se c’è una visione condivisa, a quel punto il politico non può fare quello che vuole perché deve stare dentro in alcuni binari.

E poi capisco, detto da noi della Caritas è facile, poi quando fai politica o fai l’imprenditore devi fare i conti, uno col consenso e le risorse disponibili, l’altro con una responsabilità nei confronti dei propri lavoratori, dei prodotti che deve realizzare.

 

Guja

Mi piacerebbe chiudere con degli esempi di applicazione pratica e concreta che Caritas ha messo in atto, che possano riassumere il senso del design della cura, ed i principi di Caritas.

 

Luciano

L’esempio più eclatante potrebbe essere il Fondo Famiglia-Lavoro: nel 2008, in piena crisi esplosa nell’estate, il cardinale Tettamanzi aveva avuto l’intuizione di costituire un fondo per dare una risposta alle persone che perdevano il lavoro e che rischiavano di perdere, oltre all’impiego, anche la dignità.

Lì è partito tutto un percorso di analisi delle cause, che fondamentalmente vedeva nell’individualismo, nel consumismo, cercando di invitare le comunità cristiane e tutti, a coltivare la sobrietà, cioè l’accontentarsi di quello che basta. Quindi dare una misura al consumo che chiaramente deve esserci, perché sennò l’economia non gira. Ma non poteva essere esasperata ed esasperante. 

Noi notavamo tutto il tema delle persone che si indebitavano, che rischiavano di cadere nell’usura, eccetera, eccetera. Il profitto fine a se stesso, o il consumo ossessivo, portano a questo.

La sobrietà, la solidarietà e la legalità erano le tre categorie che aveva lanciato con quel fondo famiglia lavoro, che poi ha avuto un’evoluzione: all’inizio si trattava di dare una boccata d’ossigeno alle persone che perdevano il lavoro perché potessero andare avanti e sperare di ritrovarlo. Poi siccome la vera soluzione era dare il lavoro, si è trasformato in quello che oggi facciamo ancora: invitare queste persone a riqualificarsi, se non trovavano subito il lavoro, con dei tirocini lavorativi, che ancora oggi proponiamo ai disoccupati. Quindi quello è stato forse uno degli esempi più coerenti rispetto a ciò che è lo stile Caritas, una responsabilità della Chiesa a mettere i quattrini che servivano, ma anche una chiamata alle imprese a mettersi a disposizione per offrire a questi lavoratori non solo un posto di lavoro – se c’era bene – ma anche la possibilità di riqualificarsi con tirocini lavorativi. Questo è un esempio.

L’altro esempio è Expo. 

Lì la Caritas ha interpretato il suo modo di stare nel mondo, cercando di dire alle imprese e ai governi in quei sei mesi che è uno scandalo che ci siano persone che muoiono di fame, è uno scandalo che dall’altra parte del mondo ci siano persone malnutrite, nel senso che sono obese, e poi è uno scandalo tutto il tema dello spreco. Il Refettorio ha rappresentato la sintesi di queste riflessioni, dando una risposta: non solo si nutre la pancia, ma si deve nutrire anche lo spirito e la bellezza.

Questi due progetti rappresentano veramente un modo originale, innovativo e creativo, per dire le cose che la Caritas deve fare: aiutare le persone non solo dal punto di vista materiale, ma in una prospettiva di autonomia e quindi di piena realizzazione, quindi anche attraverso la bellezza, e un’alleanza con tutti coloro che hanno le leve per cambiare le cose.