Una chiacchiera sparsa in giro per l’Italia: Gianvito collegato dalla Puglia, a Conversano, dove vive e segue i suoi progetti; Davide a Roma; Guja a Milano.
Davide
Ultimamente siamo molto abituati a usare, soprattutto per i temi ambientali, la parola sostenibilità, un termine che “nasce” negli anni ‘80 facendo riferimento alla fragilità incombente del pianeta, da un punto di vista climatico ma non solo. In questi anni in studio abbiamo riflettuto sul concetto della cura, perché la sostenibilità origina da una serie di riflessioni, molto scientifiche, che provocano una reazione molto razionale. La cura invece cosa ha in più? Il sentimento. Alla razionalità, alla ragione, aggiungi un sentimento di amore per le cose, di amore vero per il pianeta. Non è un pratico e istintivo interesse al proprio tornaconto, ma un sentimento d’amore che ti rende partecipe. Questa premessa è molto importante perché poi fa il paio con una tua visione della vita.
Allora partiamo proprio da questo. Prima parlami della tua visione della vita e poi coniughiamo questo con il concetto della cura, del design della cura.
Gianvito
Questa è una domandona difficilissima.
Allora, la mia visione della vita… la mia visione della vita è sicuramente una visione che si alterna fra l’individuale e il collettivo. Nel senso che io, sicuramente, non posso dire di vedermi come un individuo in lotta contro gli altri, non mi sento in lotta per la sopravvivenza, come magari molte persone con cui capita di parlare, che vedo sempre incazzate, costantemente, quasi come se appunto fossero in lotta per sopravvivere. Però, oggettivamente, non posso nemmeno dire di essere una persona totalmente votata alla collettività. Sono intellettualmente onesto nel dire che ho una mia individualità che cerco di soddisfare in qualche modo. Quindi, in totale onestà, non posso non dirmi individualista, in un certo senso. Però, quello che ho capito negli anni, è che tante delle cose che faccio hanno un valore verso la collettività, e lo faccio in maniera spontanea. Onestamente posso dire che il mio lavoro di designer oggi – un design che fatico a incasellare poi in una categoria precisa, perché io faccio il content designer come lavoro ufficiale, ma non mi ci riconosco più di tanto – vuol dire una persona che, diciamo così, fa cose. Gran parte delle cose che faccio hanno come scopo quello di aggregare persone e di portare avanti delle idee insieme, di promuovere una visione che è quella di un mondo dove le persone non perdono tempo a vedere ciò che non va negli altri, ma cercano di trovare dei punti in comune, per trasformare il mondo in un posto migliore. Ora sembra che sto parlando come se avessero chiesto a Miss Italia qual è la mia visione, ma io davvero credo che il mondo possa diventare un posto migliore e lo si possa fare molto spesso dalla dimensione locale. Per esempio, io cinque anni fa mi sono ritrasferito in provincia perchè non credo di dover essere al centro del mondo per poter migliorare la realtà che mi sta attorno. Oggi è difficilissimo dire questa cosa perché, ci penso spesso, dico “cavolo, io sto in provincia, sono una persona fortunata: chissà com’è stare a Gaza, chissà com’è oggi stare in un posto dove ti possono cadere delle bombe sopra la testa”, e mi sento in colpa di questo.
Quando faccio una cosa che mi sembra bella, dove ci sono state delle vibrazioni positive, penso “che bella cosa che abbiamo fatto, però poi alla fine questa cosa cambia veramente il mondo?”. No, forse pochissimo, però poi alla fine dico “ma io che cosa posso fare?”. Io sono un essere umano e nella mia condizione cerco di cambiare un pezzettino di ciò che mi sta intorno e magari cambiando quel pezzettino, a catena, a cascata, qualcun altro può essere ispirato da ciò che faccio e può cambiare un altro pezzettino creando progressivamente qualcosa di più grande – poi, se questo risolverà i grossi problemi che attanagliano l’umanità, non credo. Non so se essere fatalista realista nel dire che alla fine l’umanità è sempre stata costellata da problemi, ma poi vai a guardare i dati oggettivi: anni fa ho letto Factfulness, un libro che cerca di sbugiardare i falsi miti negativi che raccontiamo a noi stessi, con dei dati concreti, dimostrando che il mondo in realtà sta andando meglio rispetto al passato, anche se noi, standoci dentro, crediamo che non sia così.
Quindi, la mia visione della vita è una visione in cui io penso di avere anche una responsabilità: oggi ho 34 anni e comincio a vivere la mia vita in funzione di chi verrà dopo di me. Mi sento adulto, in me ho maturato una nuova consapevolezza quando faccio le cose. E nella mia visione della vita cerco genuinamente di lasciare il mondo meglio di come l’ho trovato io. Poi secondo me, non è facile per tutti capire se si sta facendo la cosa giusta. Non voglio colpevolizzare le generazioni prima della mia – perché una cosa che avviene spesso è dire “il mondo fa schifo, perché chi è venuto prima di noi, i nostri genitori…”
Davide
Perché da sempre il figlio si ribella al padre.
Gianvito
Lo diranno pure di me un giorno.
Davide
Mi spieghi un po’ nel merito che cosa intendi appunto per la tua visione?
Gianvito
Io mi vedo al servizio della comunità. Ho avuto il privilegio di essere cresciuto in un ambiente dove ho potuto imparare molto e sviluppare delle capacità – sia economiche che intellettuali – per cui oggi sento di potermi mettere a disposizione attraverso l’associazionismo, chiamiamolo volontariato culturale: faccio parte ed ho fondato delle associazioni culturali che accompagnano quello che è il mio percorso professionale. Ora, lavorando per lo stato italiano, se vogliamo anche lì c’è un valore sociale, perché quello che faccio – lavorare per i servizi pubblici digitali – per quanto sia pagato per farlo, sicuramente ha un impatto sulla vita dei cittadini e quindi cerco di farlo al meglio. Poi, purtroppo, facendolo ti rendi conto che sei un puntino e non è così facile cambiare in meglio le cose, però uno deve essere consapevole di ciò che sono le proprie possibilità. Dunque la mia visione è quella di cercare di rendere il mondo un posto migliore partendo dal locale, non avendo paura di fare qualcosa che reputo giusto, anche se credo di poter fare di più. Sono consapevole che mi trovo in un percorso in cui, a volte, ho ancora paura nel voler incidere. Questo purtroppo dipende da tanti fattori.
Ho fondato un’associazione culturale, insieme alla mia ragazza, che cerca di colmare quello che era un vuoto nel nostro territorio. Il nostro territorio, quello della Puglia, oggi è molto dinamico dal punto di vista turistico. Il turista ha un’offerta di esperienze impressionante, ma il locale, invece, ancora soffre la mancanza di un’offerta culturale.
Davide
Cosa intendi per offerta culturale?
Gianvito
Per offerta culturale intendo delle esperienze che permettono alle persone di crescere, di imparare qualcosa di nuovo, di scoprire qualcosa che non sapevano prima e che magari può cambiare la loro vita in meglio.
Se tu sei un giovane che sta uscendo dal liceo e il tuo orizzonte di conoscenza è limitato perché intorno a te non hai la possibilità, come l’hai in altri luoghi, di conoscere, questo può influenzare in negativo la tua vita, perché potresti finire a fare qualcosa che non ti renderà felice. Quindi,
per me, avere accesso all’offerta culturale, permette di avere accesso a diverse versioni di se stessi.
Davide
Secondo te la cultura è solo l’esercizio delle arti o è qualcosa di più profondo? Riuscire a rivalutare, per esempio, il lavoro del contadino, è cultura?
Gianvito
Sì, per me ne fa parte, fortunatamente quello è un processo attualmente in corso. Nel senso che c’è un ritorno di interesse verso la terra. Posso parlare per la generazione di quelli dei 25-35, che conosco meglio – non posso parlare di chi oggi va al liceo perché non ho molti contatti. C’è questo ritorno, fa parte della cultura ed è un altro dei motivi per cui sono orgogliosamente tornato in Puglia. Recentemente ho scritto un piccolo testo per un evento che ho curato a Milano da Via Stampa, ristorante che si trova in zona Colonne, con Cucina Villana, che è un ristorante pugliese che porta avanti una visione etnobotanica, quindi come collegare tutta la parte di tradizioni, di rituali, di cultura di un popolo a quella della botanica, alle piante. Nel testo ho scritto la frase noi ci vergogniamo di essere contadini: noi, ad essere chiamati terroni, ci sentivamo offesi, e rimane tutt’ora un’offesa se viene detta con un’intenzione dispregiativa, ma oggi abbiamo fatto una riappropriazione di quella parola, per cui è diventato quasi un vanto. Bisogna stare attenti a normalizzarla, dobbiamo essere consapevoli che comunque è un’offesa.
Io vedo questo ritorno, poi non posso dire che sia compiuto, perché, sicuramente, la maggior parte dei miei coetanei oggi, me compreso, non sa tantissime cose sulla terra. Come dico sempre in quel testo, noi continuiamo a calpestare delle cose senza sapere cosa stiamo calpestando, però sicuramente vedo che c’è un interesse, un orgoglio, un nuovo framing di ciò che abbiamo sempre avuto intorno. Questo chiaramente va di pari passo con i rischi legati al turismo, a quello che il turismo fa, quindi il racconto che ne facciamo di noi stessi. Per questo quello che faccio è molto rivolto alle persone locali. Poi se viene un turista, io sono felice perché si crea una commistione e il turista stesso può entrare in un territorio in un modo, secondo me, più rispettoso. Però noi abbiamo cercato di colmare un gap, organizzando workshop. Ecco, a proposito di cura, io sono fissato con la manutenzione delle cose. Per me non serve sempre inventare qualcosa di nuovo, la vera difficoltà, il vero valore, sta nel prendersi cura delle cose. Quindi fare dei workshop grazie ai quali la persona può imparare qualcosa di nuovo che magari ti apre una porta, ti spalanca un mondo nuovo. Poi quello che facciamo è ovviamente coinvolgere delle realtà locali che vengono ad insegnare, fare hub di aggregazione, facilitare la conoscenza, che non è una banalità – far conoscere una realtà che sta a due ore di macchina, non è banale. Cerchiamo quindi di prenderci cura della nostra comunità, del nostro territorio, mettendo a disposizione ciò che sappiamo fare, ciò che amiamo fare, ovvero cercare di connettere le persone e dare loro la possibilità di scoprire, di essere curiose, perché sappiamo che se non lo facciamo noi difficilmente lo farà qualcun altro.
Davide
Tu hai detto all’inizio che ad un certo punto hai deciso di lasciare Milano e di ritornare lì. Allora di fatto, il luogo dove sei, grazie a quello che stai facendo, sta diventando un piccolo centro del mondo? Per cui, se molti seguissero il tuo esempio, tanti centri poi creerebbero una rete che diventa un centro più allargato, un magnete più allargato.
Gianvito
Dipende, secondo me, dalle caratteristiche e dalle condizioni che non sempre riguardano l’individuo: la geografia, l’ambiente, la storia di un posto fanno tanto ad esempio. In Puglia si è creato un ambiente ricettivo a persone come me: non sono l’unico, stiamo cominciando ad essere parecchi a tornare, portandosi dietro dell’esperienza e delle competenze.
Per creare questo magnete, ci devono essere delle condizioni che esulano dal nostro controllo. Noi possiamo, se siamo tanti, favorirne lo sviluppo.
Ma io sono arrivato in un posto che, pur mantenendo tanti problemi, perché oggi in Puglia se non hai la macchina sei isolato, se tu hai bisogno di connetterti puoi farlo.
Davide
La parola connetterti, connettere, viene usata più che altro nel mondo del digitale. Veniva usata una volta quando c’era la connessione telefonica, per cui ha questo tipo di valore. Perché dici connettersi? Prova ad usare un altro sostantivo o un altro verbo.
Gianvito
Ti direi “conoscersi”.
Davide
Ecco questo è un altro punto. “Conoscersi” è molto più forte che “connettersi”. Allora l’attenzione al linguaggio, ossia alla proprietà del linguaggio, siccome ogni parola è una cosa, è fondamentale. Io oggi trovo che ci sia una mancanza di attenzione al linguaggio, e l’attenzione al linguaggio è innanzitutto una grandissima attenzione al nostro sentire. I sentimenti che abbiamo dentro hanno sfumature incredibili, hanno momenti veramente particolari, se non individuiamo la parola giusta per poterli esprimere, e il più grande esperto di queste cose è il poeta, che sa trovare la sfumatura giusta, la parola giusta per esprimere quel tipo di sentimento in quel momento. Ti dico questo perché io penso che quello che tu hai nell’anima, quello che tu hai nella tua intenzione avrebbe una maggiore efficacia, anche rispetto agli altri, se questa attenzione alla precisione fosse costante.
Gianvito
Assolutamente, ho usato la parola “connettersi” perché volevo rimarcare il fatto che, a volte, quando vieni in provincia è anche solo difficile entrare in contatto.
Davide
Sì, ma è la stessa cosa. Non è difficile entrare in contatto, se tu vivi in un quartiere di Milano? Questo che noi chiamiamo “entrare in contatto”, non dipende dalla nostra capacità di avere verso noi stessi e verso l’altro un sentimento particolare?
Gianvito
Sicuramente. Infatti secondo me c’è anche un problema di cultura della curiosità. Come dicevi tu, essere curiosi a volte viene visto come un difetto, anche perché è considerato una perdita di tempo. Oggi veniamo cresciuti con l’obiettivo di arrivare al mondo del lavoro, sembra che lo scopo di un giovane sia solo lavorare.
Davide
Hai detto una cosa molto bella: il tema non è lavorare, il tema è sentire se io sono felice o meno. Ossia, non è il lavoro per il lavoro, ma trovare qualcosa, che chiamiamo poi lavoro, a cui aderisco con tutto me stesso, e perciò trovo dentro a questo mio fare anche una soddisfazione, una felicità. Allora, diciamo, tutto sommato, è la tua vera missione – perché comunque sei un missionario, colui che si prende in carico una cosa e ne fa una missione. Da come parli, sei arrivato lì e hai costruito una modalità di rapporti che ha fertilizzato una comunità. A mio avviso questa è la tua “missione culturale”. Questa tua visione di vita può coincidere con quello che noi chiamiamo design della cura?
Gianvito
Io credo di sì. Guarda, proprio prima di iniziare questo dialogo mi è capitato un post su Instagram che parlava proprio di questo, diceva “come possiamo noi designer oggi pensare a fare il logo più grande, mentre il mondo va a scatafascio?”. Ormai sono passati parecchi anni da quando, purtroppo, mi è un po’ cascato addosso il design. Ho sempre creduto che avesse come obiettivo cambiare il mondo. Oggi, ci siamo resi conto che forse, per come sta andando il mondo, non avevamo tutto questo impatto come credevamo.
Davide
Perché dici questo?
Gianvito
Oggi la maggior parte dei designer lavora in delle strutture dove deve eseguire degli ordini e dove, quando si trova di fronte a una scelta di tipo etico, molto spesso è portata a fare la scelta meno etica.
Davide
Questo, da un punto di vista proprio della purezza del termine “designer”, ossia progettista, fa decadere la qualità del progetto perché, comunque, un progetto deve avere come finalità l’eticità. Poi può esistere la progettazione in negativo. Chi ha inventato la bomba atomica, Oppenheimer, si è posto dei temi che hanno ossessionato per tutta la vita il suo operato. Perchè non è la bomba atomica, è l’energia atomica che lui ha visto come grande opportunità per l’umanità. Perciò, anche secondo la tua visione, esiste una progettazione che va verso il negativo, ed una progettazione che va verso il positivo. È evidente che il progettista puro, cerca nel progetto il vero delle cose, ma se cerca il vero delle cose, cerca anche il giusto delle cose, cerca il buono delle cose, cerca il bello delle cose. Tutto questo noi lo possiamo chiamare bellezza. Altrimenti chiamiamo bellezza la parte più estetica e superficiale, ma se io invece riscontro in quell’opera una volontà di ricerca del vero, del giusto, del buono e del bello, questa cosa darà dei risultati veramente molto importanti. Nella cultura greca il kalòs kai agathòs, ossia il bello e buono, erano un’unica cosa: una cosa era bella se era buona, non bella per essere bella. L’arte all’inizio era solo una grande testimonianza della tensione dell’uomo verso il divino. Immaginati che straordinaria visione aveva l’uomo, che cercava di avere la massima tensione verso il divino, verso il vero, il bello, il buono e il giusto.
Allora, tornando a te, trovo tutto questo una scelta molto importante che hai fatto, una scelta che nasce dalla ricerca di te stesso, giustamente.
Gianvito
Che è ancora in corso.
Davide
Io spererei che questa ricerca termini solamente nell’alto estremo di quando tu lascerai questo mondo.
Gianvito
Anch’io, però delle volte sono felice di essere un vagabondo, in senso positivo, perché credo che errare, vagare, siano cose belle.
Davide
Errare implica una cosa che fa parte dell’esperienza: l’errore, che nasce dalla stessa radice. Per cui chi erra esce dal seminato – perché nasce sempre dal concetto del coltivare – perciò sbaglia, perché chi esce dalla semina sbaglia. Ma in realtà è conoscenza.
Gianvito
Credo fortemente in questo. Delle volte però, nel vagabondare, non sei sicuro di stare andando da qualche parte effettivamente.
Davide
Ma conta andare da qualche parte o conta comunque andare in quel momento?
Gianvito
Allora, conta andare, però delle volte hai bisogno di capire se stai facendo qualcosa che va nella direzione che ti sei dato. Oggi, per esempio, io vivo questa difficoltà, proprio perché ho tanti progetti su cui lavoro da designer e delle volte penso “farei meglio a focalizzarmi su una sola cosa”. Uno dei miei progetti più grandi è “Vita Lenta”, i cui valori spero stiano entrando nel modo giusto nella società, perché poi quando si ha progetti così grossi, purtroppo non si ha sempre il controllo effettivo su come un concetto viene rielaborato dalla società. Quello che mi sta succedendo e che a volte mi fa chiedere se sto andando nella direzione giusta, è che Vita Lenta mi è sfuggito di mano. È diventato un modo di dire, che di certo non mi sono inventato io – pensiamo all’otium e negotium di Seneca.
Davide
Che cosa intendi tu per Vita Lenta?
Gianvito
Vita Lenta per me vuol dire avere la consapevolezza da essere umano che posso vivere di un ritmo che innanzitutto decido io, non lo decide l’esterno, e che mi fa stare bene.
Quindi non vuol dire necessariamente che io debba stare immobile come qualcuno pensa. Però, nel farlo, sono sempre meno schiavo di un’idea – che arriva dall’esterno – di come dovrei fare le cose, della velocità a cui dovrei raggiungere un determinato status o obiettivo. Vedo che oggi siamo tutti convinti che dobbiamo ottenere dei risultati, degli obiettivi, perché abbiamo questa cultura imprenditoriale che ci viene sempre più innestata dentro fin da quando siamo piccoli, e che a questo obiettivo ci dobbiamo arrivare subito. Se non ci arriviamo è un dramma, abbiamo fallito.
Mi è capitato di ricevere domande da persone su Vita Lenta che mi chiedevano come avessi fatto a raggiungere 700 mila follower. Come se l’obiettivo sia arrivare a 700 mila follower ed arrivarci trovando la scorciatoia. E là io ci vedo la radice di un problema. Non deve essere quello il primo pensiero di una persona. Io non ho creato Vita Lenta come progetto digitale, di storytelling, artistico, ma ho capito anche che a volte non serve definire troppo le cose. Veramente non ci pensavo, avevo dentro di me il sospetto che potesse essere qualcosa di più, ma non ho mai pensato a quello come il mio fine. Volevo raccontare qualcosa in cui credevo ed in cui credo ancora.
Davide
Qual è la tua interpretazione del tuo successo? Che cos’è che la gente ha riconosciuto nel tuo racconto?
Gianvito
Innanzitutto ci ha ritrovato un proprio bisogno. Ha trovato quello, e il successo della pagina è stato, se vogliamo, causale e casuale. Causale perché è arrivato durante il Covid, quindi la causa del successo stava in una sorta di spirito del tempo che ti portava a guardare la realtà con occhi nuovi. Casuale, perché tutti i successi sono casuali secondo me, ci sono delle cose fuori dal nostro controllo, e perché io casualmente l’ho lanciato durante il lockdown non avendo niente da fare, non è che mi sono messo strategicamente a pensare che quello fosse il momento giusto.
Poi, mi rendo conto che su Vita Lenta non pubblico mai o quasi mai riflessioni o messaggi espliciti. Solo di recente mi è capitato di fare dei post dove scrivo dei pensieri un po’ più elaborati, ma fino a poco tempo fa i video non avevano nulla di scritto, se non una didascalia che era “Vita lenta a Conversano”, fine. Molto spesso ho anche pensato di volerla togliere, perché volevo smarcarmi dal luogo, volevo far capire che non dipende da quello, perché le persone si fissavano e dicevano che a Milano non è possibile. In realtà ho deciso di mantenerlo proprio perché quando pubblico “Vita lenta a Milano” voglio che le persone capiscano che non è vero che in una città non si può ritrovare un momento che va alla velocità che si desidera ed è possibile trovare dei momenti in cui siamo noi a decidere qual è il ritmo a cui vogliamo andare. Non si tratta di rivoluzionare la propria vita. Io non propongo di mollare e cambiare radicalmente tutto. Poi, se qualcuno lo fa, ben venga per lui o lei, però io non propongo una visione in cui c’è una vita che fa schifo e una vita da sogno. Io propongo una visione in cui siamo un po’ più equilibrati e possiamo dirci che la realtà non deve andare come deve andare, ma possiamo incidere un po’ con le nostre scelte, che possono essere anche delle piccole scelte, di come noi decidiamo di trascorrere il nostro tempo. Poi spesso mi sono chiesto che impatto stessi avendo e come potevo mitigare delle cose o cambiare quel impatto. Faccio un esempio: “La vita lenta è una cosa solo del sud Italia.” Questa è una delle cose che mi è stata detta e criticata, ma se uno fa vedere i contenuti che pubblico c’è una grande diversità.
Queste letture superficiali ci sono e io per questo, in quanto promotore del progetto, mi pongo delle domande. E qua possiamo tornare anche al mondo del design: oggi il design e i designer, quelli bravi, si pongono tante domande sull’impatto che stanno avendo, ed è difficile oggi trovare una risposta.
Anni fa ho letto un libro di Mike Monteiro, “Ruined by Design”, che ho finito dicendo “vabbè quindi io cosa posso fare?”, mi sembrava quasi che non potessi fare nulla. Quello che ho capito è che non esiste il progetto di design perfetto, tutti i progetti devono venire a compromessi. La cosa che io credo importante è che questi compromessi non sacrifichino mai l’anima di quel progetto.
Davide
Tu all’inizio hai detto “adesso sono un adulto”. È interessante perché adulto e adolescente vengono dalla stessa parola: adolescere, che vuol dire nutrire. Quindi, da quello che tu dici, da un lato sei un adulto, ma per fortuna rimani un adolescente, uno che desidera costantemente essere nutrito.
Gianvito
È vero, grazie per avermelo detto perché dico sempre che mi sento ancora giovane, in un certo senso.
Una delle mie più grandi paure, ma che allo stesso tempo mi fa venire i brividi in senso positivo, è chiedermi cosa farò tra dieci anni, che cosa farò, se sarò ancora un designer.
Per esempio uno dei miei sogni è aprirmi un bar: per me un bar è molto più che un posto dove ti servono da bere; è un luogo di aggregazione. Un bar ha un ruolo culturale sulla società, è qualcosa di più grande, al di là di come lo arredi, della musica che ci metti, di quello che servi. Quindi magari fra 10 anni porterò avanti la mia missione con un luogo fisico, che corrisponderà al bar oppure sarà un’altra cosa. Però è una delle mie più grandi paure perché, da un certo punto di vista, oggi faccio un lavoro, quello del content designer, che mi permette di pagare bollette ancora per un anno, ma è un lavoro molto a rischio a causa dell’intelligenza artificiale. Io non mi sento in pericolo al momento, perché so che in realtà l’adozione di questi strumenti non è così veloce come viene raccontata, però ho paura e mi chiedo se tra dieci anni il mio lavoro servirà ancora, al netto del fatto che probabilmente non avrò voglia di farlo, quindi il problema si autorisolverà.
Però, dall’altro lato, questa paura mi fa venire i brividi. Poi mi tranquillizzo dicendo che prima di me un sacco di gente faceva dei lavori che sono mutati nel tempo e mi pare che, in qualche modo, è riuscita ad andare avanti nella propria vita. Io vivo nella costante tensione tra la voglia di stabilità e la voglia di instabilità.
Davide
Mi sembra una bellissima affermazione e spero che tu rimanga così. Questa è la modalità più equilibrata – infatti è in equos libra, dello stesso peso – ed è la modalità della conoscenza. Del resto, l’affermazione che ti ho detto prima, che tu sei un missionario, è avvalorata dalla tua volontà di aprire un bar, ma che sia un centro di aggregazione per la comunità. Il missionario, cos’è che apre? Un monastero, una chiesa: un luogo di aggregazione. Oggi il bar, il ristorante, come dico sempre, sono l’ultima chiesa laica, è questa la sua funzione sociale.
Ultima domanda: che rapporto hai tu con il concetto di sacro?
Gianvito
Sto pensando a quando uso la parola “sacro”, per capire, anche istintivamente, perché la uso. Io sono una persona che ha acquisito una grande flessibilità mentale, ma su certe cose non transigo. Certe cose per me sono sacre, nel senso che non si toccano. Poi sono sempre pronto a cambiare idea eh, però sono quelle cose, quei punti fermi sui quali io personalmente ho riflettuto molto, che per me non vanno quasi nemmeno messi in discussione. Non voglio chiamarli postulati, come avrebbero fatto i filosofi ed i matematici, perché forse uso anche la parola in maniera impropria, però ecco i postulati sono indiscutibili. Per esempio, io non sopporto chi non rispetta il mio tempo libero. Il tempo per me, che dedico a ciò che mi piace al di fuori del mio lavoro, è sacro. E chi non rispetta questa cosa, che poi probabilmente non lo rispetta neanche per sé stesso, perché lo toglie anche a sé stesso se ha questa visione, per me vìola qualcosa di sacro.
Così come non capisco le persone che cercano di definire le vite degli altri. Nel tema dei diritti civili, io non comprendo come una persona possa impostare la propria vita nel negare il diritto di qualcun altro. Quindi per me è sacro difendere la libertà di una persona di fare qualcosa che non nuoce agli altri e che fa bene a se stessi. È una cosa sacra, non va dimostrato il perché.
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