Giulio ha messo a disposizione il suo showroom a San Babila per questa chiacchierata mattutina.
Davide e William ne hanno approfittato, prima dell’appuntamento, per un goloso toast allo Strucchi x CassinaCafè, il nuovo bar in via Durini a due passi dal loro rendez-vous.
Davide
Che differenza c’è secondo te tra il “prendersi cura di” e la “sostenibilità”?
Giulio
Secondo me, il prendersi cura è, a tutti i livelli e in tutte le diverse situazioni, soprattutto un atto d’amore. Un atto d’amore nei confronti di noi stessi, degli oggetti, delle persone, del mondo. Un atto d’amore e anche di responsabilità.
Io penso che in questo momento, soprattutto nel periodo del covid e post-covid, lavorando e vivendo con dei ritmi un po’ più rilassati, abbiamo avuto un po’ più di tempo per guardarci dentro e non rincorrere delle tappe sempre più veloci. Perché il grande problema del non aver cura, è che non abbiamo tempo di fermarci a pensare. Siamo talmente presi dalla quotidianità, dall’accelerazione della soluzione dei piccoli problemi, che poi perdiamo di vista i grandi. Io ho avuto la fortuna, anni fa, di fare per la Banca Mondiale due convegni, uno a Milano e uno a Washington, sul changing climate, e obiettivamente, sono venuto a conoscenza di cose sconvolgenti. Il mondo è mezzo distrutto e nessuno si è posto il problema di porre dei freni. Per cui, secondo me, in questo momento, dobbiamo tassativamente, e ciascuno nel proprio vivere, mettere dei punti fermi. Perché finchè denunciamo una situazione, ma interveniamo solo dicendo “tanto questi sono macro problemi che ci riguardano, ma indirettamente”, non arriveremo mai da nessuna parte. Per cui io ritengo che questa cura significa proprio andare nello specifico, andare nel dettaglio. Poi può essere declinata nei modi più diversi. In questo momento, anche perché parlo di sostenibilità a tutto tondo, a 360 gradi, soprattutto nei giovani si è persa molto la cura delle relazioni con le altre persone. Esiste una relazione fortissima con qualcosa di virtuale, con avatar che creiamo a immagine e somiglianza di quello che vorremmo essere. E secondo me questo è molto negativo, perché è un modo di fuggire dalla realtà del mondo. Avere cura delle persone significa cercare di capirle e di relazionarti con loro.
Questa è la vera sostenibilità, tutto il resto è un di cui.
Davide
Ritornando al concetto di relazione e al concetto di negazione, la passione e l’amore sono sentimenti adeguati non per sopravvivere, ma per ritornare a vivere.
Giulio
Ne sono pienamente convinto. E questa accelerazione continua del dover essere, del dover fare, del dover apparire, ci ha portato a una superficialità totale che sta deteriorando noi stessi, i nostri rapporti con l’altro e nei confronti di tutto ciò che ci sta attorno. Quindi secondo me il grande sforzo che dobbiamo fare è veramente cercare di rallentare, pensare e andare al fondo delle cose, eliminare questa crosta di superficialità che secondo me è stato un elemento molto forte, troppo forte degli ultimi decenni.
Davide
Su questo siamo totalmente d’accordo. La superficie è l’apparire, l’effimero. La conoscenza dell’uomo sta nell’andare nel profondo. Guardando come vivi, dove vivi e per cosa vivi – l’amore per l’oggetto – ciò che dici narra il tuo amore per l’oggetto e per la relazione con l’oggetto.
Giulio
Mi piace sempre ripetere la frase del grande Achille Castiglioni: il ruolo del design è sicuramente di creare oggetti belli e utili – perché nessuno se ne fa nulla di oggetti utili ma brutti – ma soprattutto quello di far sorridere e sognare le persone. Quindi secondo me proprio con la poesia, con l’amore, possiamo creare un sogno e il sogno è quello che alla fine tesse il rapporto fortissimo tra la persona e l’oggetto. Noi abbiamo oggetti di uso quotidiano che probabilmente vanno e vengono, hanno una vita molto breve. Poi abbiamo oggetti che diventano invece parte di noi stessi, che fanno parte della nostra vita: oggetti che ci piace possedere, che ci piace utilizzare, che ci piace tramandare. Oggetti che ci rappresentano. In passato le persone volevano avere la casa o l’ufficio come quelli dei loro amici o dei loro parenti. Oggi, se c’è un trend, è la libertà: la libertà di scegliere oggetti progettati da persone diverse, prodotti da aziende diverse, in parti diverse del mondo, in epoche diverse, però oggetti che ti rappresentano. Guarda caso, la crescita del mercato del vintage, soprattutto per il pubblico giovane, è legata al fatto che abbiamo bisogno di radici, di punti di riferimento.
Tornando a quello che si diceva prima, ahimè, alla superficialità, oggi purtroppo molti modelli che vengono presentati come persone di riferimento sono veramente superficiali – per non usare dei termini peggiori – mentre persone di qualità eccellente che hanno dedicato la loro vita allo sviluppo di progetti straordinari magari vengono messi da parte. Questo secondo me va rimodulato, soprattutto per i giovani.
Davide
È un problema della società, per cui la superficialità la ritrovi nel modo di relazionarsi, in altri linguaggi artistici. La trovi dappertutto, è un elemento di crisi.
Giulio
Sì, l’educazione non è soltanto legata al comportamento delle persone. L’educazione devi trovarla negli oggetti che idei, nell’arte che proponi, nelle installazioni che progetti. Rigore, passione e professionalità sono elementi fondamentali. Fare dei progetti – veri progetti – non è qualcosa che si improvvisa dalla sera alla mattina. La cosa su cui probabilmente dobbiamo lavorare molto, come spesso dico, è raccontare il sudore che c’è alle spalle del progetto. Tante volte magari ci restiamo male o ci arrabbiamo perché il pubblico alcune cose non le capisce e allora mi rimetto in discussione e dico: “ma forse se non le capiscono è perché non le sappiamo spiegare nel giusto modo”. Quindi forse più che creare nuovi oggetti, a parer mio è importante cercare di raccontare tutto ciò che c’è alle spalle della creazione.
Davide
Ecco, questo è un punto molto importante. E qua entra dentro un altro tema: qual è il tuo rapporto con i progettisti? Questo è interessante perché il rapporto con il progettista è un po’ il rapporto con il committente e l’artista, Giulio e Michelangelo.
Giulio
È un rapporto fondamentale. Quando mi chiedono come scelgo i miei progettisti, io ironicamente rispondo “se mi sono simpatici”. Prima di tutto ci deve essere un mutuo rapporto di complicità, profonda amicizia e rispetto. Con alcuni magari fai un progetto ogni anno, con altri fai un progetto ogni cinque, però c’è sempre un rapporto che continua e che cresce. Alla base di tutto ci deve essere profondo rispetto, profonda conoscenza: cercare di capire da parte mia tutti gli aspetti, o i principali aspetti, della persona che ho davanti.
Il grande Carlo Scarpa diceva che se spendiamo più di 30 parole per spiegare un progetto è perché non ne siamo convinti noi in prima persona ed aveva perfettamente ragione. Il progettista deve capire quello che l’azienda è in grado di fare o non è in grado di fare, e l’azienda non deve schiacciare il sogno, la creatività del designer, ma cercare di far diventare una sua idea un prodotto, con un iter che è spesso anche molto complesso e lungo e che magari non arrivi neanche a concludere. Però ci deve essere il famoso feeling, la complicità, che rende il rapporto più fluido. Spesso succede che dalla prima idea al prodotto finale cambiano tante cose, dovuto magari all’uso delle tecnologie, all’uso dei materiali, al confronto con il mercato. Per cui il progettista deve essere anche pronto ad accettare certi cambiamenti rispetto alla sua idea iniziale, però dipende sempre dall’educazione , dalla gentilezza con cui questi cambiamenti vengono proposti.
Io parto dal principio che c’è sempre qualcosa da condividere, qualcosa da imparare. Nella mia vita ho sempre avuto la fortuna di avere grandi incontri, con maestri incredibili. Ho lavorato un anno con Gio Ponti quando ero all’università; ho avuto incontri straordinari, da Mangiarotti a Magistretti, da Florence Knoll a Shirō Kuramata. Il rapporto deve essere a tutto tondo. Quando mi incontro con i progettisti, magari parliamo un’ora di prodotto e tre ore di concetti più generali, ma questo è importante perché porta sempre a una conoscenza più profonda. Se vuoi fare un bel progetto non devi avere paura di metterti a nudo nei tuoi valori o nelle tue debolezze e nelle tue contraddizioni, che fanno parte del nostro lavoro. Fare progetto con un progettista non è soltanto costruire un tavolo, una sedia, un bicchiere, una lampada. Achille Castiglioni e Sandro Mendini, io dicevo sempre che erano i miei psicologi, non erano progettisti, proprio perché c’era un dialogo che trovo fantastico: un confronto continuo, non necessariamente sempre molto lineare, in certi casi anche con delle discussioni particolarmente accese, però costruttivo.
Questo secondo me vuol dire fare progetto. In certi casi non sono riuscito a portare a termine dei lavori con architetti e designer straordinari, con cui però non è scattata questa molla. Se vedo che col tempo non si riesce proprio a instaurare una complicità, preferisco lasciar perdere.
L’inizio del design italiano è stato creato da un manipolo di imprenditori che credevano nel design come nuova forma di business e da un manipolo di allora giovani progettisti che pensavano di poter creare degli oggetti in maniera differente, guardando al futuro. La complicità di questi due manipoli ha creato un fenomeno di importanza mondiale che dobbiamo assolutamente difendere.
Ritorno a quello che dicevo prima: forse ci trinceriamo dietro a frasi fatte, l’eccellenza del Made in Italy ad esempio, ma in Italia facciamo anche grandi schifezze. Non c’è bisogno di andare in Cina per trovare le copie, le troviamo anche in Italia. Quindi dovremmo forse tutelare un po’ di più questi concetti e soprattutto pensare che fare oggetti è come avere delle relazioni: è una cosa seria, non è una cosa superficiale.
Davide
Tu giustamente prima hai parlato di maestri. Io ti parlo di visione. Di recente mi è capitato di parlare con Mendini: con entrambi, sia con lui che con te, nutro lo stesso “sympathos”. Con voi posso parlare di design, ma posso parlare di musica, di mangiare, di viaggi, della vita. Più tu sei profondo, più parli della vita.
Giulio
Probabilmente se ci sono dei minimi comun denominatori tra di noi, sono la grande modestia, la grande semplicità e soprattutto la grande generosità. Questa è una prerogativa dei grandi. Porto un piccolo esempio che secondo me racconta lo spirito di un grande progettista come Alessandro Mendini: una volta avevo deciso in allestimento di utilizzare alcuni suoi bellissimi dipinti, oggetti e pezzi unici. Lui aveva un grande magazzino pieno di cose vicino al suo studio, per cui mi ci sono recato con alcuni giovani del mio team che avevano dovuto poi occuparsi dell’allestimento di questa piccola mostra. Sandro mi guardava e diceva: “secondo te queste cose sono belle? Secondo te a loro piacciono veramente?”. Dico: “Sandro, ma tu gli stai regalando uno dei momenti più belli della loro vita!”. E lui era quasi sorpreso di questa cosa. Ecco, lì sta veramente la generosità d’animo. Nell’anno in cui ho lavorato con Gio Ponti, noi eravamo un gruppo di sei o sette ragazzi internazionali e lui con grandissima generosità ci raccontava tutti i suoi progetti, ma non dal punto di vista tecnico – quello lo puoi trovare ovunque. Ci raccontava le sue esperienze, si metteva a nudo per noi e poi ci dava dei temi di progetto.
Davide
Prima non esisteva la laurea in design, erano architetti. A me ha sempre affascinato come Vitruvio definisce nel suo De Architectura l’architetto: “l’architetto non è musico ma deve sapere di musica, l’architetto non è medico ma deve sapere di medicina…” e va avanti, parlando alla fine della visione enciclopedica, cioè una visione a 360° del ciclo della vita. Quei maestri laureati in architettura, a mio avviso, hanno conservato, chi più chi meno, questa visione.
Giulio
Certo, perché fare progetto, soprattutto nell’architettura, significa anche rispettare i luoghi, rispettare le geografie, rispettare gli usi, rispettare le tradizioni.
Questo appiattimento sotto l’egida dello stile internazionale, che non capisci più se sei a Milano o a Detroit, mi spaventa un pochettino. Devo dire però anche in questo caso si stanno vedendo i primi segni di cambiamento.
Davide
È un ritorno, sempre simbolico, al ”artigianato”, al particolare.
Giulio
Certo, perché standardizzare tutto è molto facile ma non stimola più nulla. Se devo andare in un posto e perdo tutti quei segnali, questo purtroppo è un peccato. Devo dire che, ad esempio, Milano, essendo una città internazionale, ha perso degli elementi: bellissimi negozi, piccoli laboratori artigianali. Nella provincia li trovi ancora, a me piace tantissimo andare nei paesi. Ne parlavo proprio ieri sera, c’era Gilda Bojardi a cena da me: quando vado nei piccoli paesi dove ci sono queste drogherie, gli opifici… Ecco, quello mi piace tantissimo. E devo dire che queste sono le cose che fanno la differenza e che si stanno riscoprendo. In America, dove la percentuale di fake food italiana è altissima, l’offerta ha un grandissimo fascino perché racconta l’heritage, racconta la storia. Questo, secondo me, è un patrimonio assolutamente impagabile. Pensate ai manifesti, alle campagne pubblicitarie del passato dove venivano chiamati i più grandi artisti. Oggi vediamo delle cose che sono spesso di una banalità sconcertante. In passato, da chi faceva la bibita a chi faceva la crema o il liquore, chiamavano i più grandi artisti che creavano opere di una bellezza unica. Non è un problema di budget, è un problema di testa. Ritorniamo al solito discorso: io posso fare anche un bicchiere bellissimo, ma se non lo comunico nel giusto modo è lettera morta, soprattutto in un momento in cui il nostro palcoscenico non è l’Italia o tre paesi intorno, ma il mondo intero. E nel mondo, soprattutto nei nuovi paesi, c’è grande fame di creatività italiana. Però dobbiamo portarla nel giusto modo e, soprattutto, dobbiamo pensare che vendere un prodotto italiano, prima di tutto, significa vendere cultura, vendere tradizione. Il prodotto è un di cui. Importantissimo, però è un di cui. I nordici si stanno prendendo i pezzi di De Carli, i pezzi di Archivio di Bellini e così via. Non è casuale questa voglia di punti fermi. Sono la nostra “casa”. Oggi non abbiamo più le case, abbiamo dei rifugi. I nostri sono dei rifugi e all’interno di questi rifugi abbiamo bisogno di radici, abbiamo bisogno di alcuni punti fermi che siano l’oggetto, il mobile, un certo tipo di cibo che ti dà sicurezza e serenità. Alla fine abbiamo bisogno di un po’ di serenità.
Anche perché devo dirti che questa ricerca di punti fermi non è nostalgia, assolutamente. Raccontare la nostra storia in modo proattivo, in modo positivo, è un elemento straordinariamente essenziale. Quindi non è che se guardo al passato allora sono nostalgico – questo è il discorso di chi vuole tagliare le cose velocemente, senza senso. Torniamo infatti al tema della superficialità. Però nel cambiamento comportamentale da parte del pubblico, sicuramente noi dobbiamo cercare di capire, come dico sempre, what’s next. Questo è quello che si stanno chiedendo e su cui si stanno interrogando i grandi gruppi dell’arredo, i grandi gruppi della moda. Quali sono le esigenze del nuovo pubblico, di un pubblico più giovane e soprattutto di un pubblico più internazionale? Perché il ricco cinese vent’anni fa non sapeva neanche chi fosse Hermes, oggi invece è un cliente privilegiato. Cosa dobbiamo dargli? Quella è l’attualizzazione dell’artigianato.
Se io faccio la grolla di legno, magari se la disegna Michele De Lucchi diventa più attraente come concetto. Questo secondo me è un passaggio estremamente importante, estremamente sottile, perché da una parte ci porta alla difesa di tutti i nostri valori e della nostra qualità – a me non piace parlare di produzione, io parlo di manifattura, noi in Italia dobbiamo difendere la manifattura – e allo stesso tempo si cerca di capire come attualizzare la qualità di questa manifattura senza violentarla.
Davide
La superficialità ci porta tra l’altro anche a una rarefazione del linguaggio, o meglio a una rarefazione della precisione del linguaggio. Abbiamo un vocabolario sempre più ristretto, ci siamo molto americanizzati e perciò non riusciamo a esprimere fino in fondo il sentimento che abbiamo.
Io ad esempio in questo momento sento un sentimento di odio. Ma è odio? Che tipo di qualità d’odio? Che gamma? Il rosso? Il rosso è un mondo. Ci sono stati pittori che hanno lavorato solo sul rosso – Rothko ha lavorato sul rosso e sul nero. Pensa a Burri che era ossessionato dal nero e lo chiamava il nero profondo. Allora, non trovi che un verbo che dovremmo recuperare, sia proprio il reinterpretare. Quando reinterpretiamo in libertà, non dobbiamo avere timore del passato, del presente, del futuro. Lo spartito della quinta è quello, ma un conto è che lo dirige Von Karajan, un conto è Muti. Sono tutti diversi. E allora, stiamo qua a dire che sono sbagliati?
Giulio
D’altronde, l’artista a 360 gradi è veramente la persona che concretizza il pensiero del momento. Se tu analizzi tutti gli elementi di cui hai parlato, l’arte, la musica, il progetto, l’architettura, sono veramente il racconto del tempo, sono i veri testimoni del tempo. E questo obiettivamente è un altro valore incredibile. Ultimamente per un progetto mi sono ristudiato Mies Van Der Rohe, la sua trave a croce. Questi signori erano avanti cent’anni e adesso noi facciamo l’ambientino, la casetta con le colonne eccetera.
Davide
Come in Brianza, con i nanetti fuori in giardino.
Sul futuro, o hai un senso profondo dentro te stesso, altrimenti sei banalmente fermo. Non sei né nel presente, né nel futuro, né niente.
Giulio
Infatti ritorniamo a quello che si diceva prima, che c’è tantissimo da fare nella comunicazione. Sono realtà che ti fanno pensare. Io per primo ho dei pezzi antichi da cui non mi separerei neanche sotto tortura. Ma c’è chi si compra orrende copie di mobili antichi a prezzi altissimi, perché pensano che il design sia una cosa di moda. Poi magari fra tre anni non gli piacerà più. Io rispondo che Le Corbusier è da 70 anni che viene prodotto e non è passato di moda… e potrei fare un lungo elenco. Però lì c’è proprio un fatto di conoscenza. Pensa che durante un master alla Bocconi, in cui c’erano studenti che arrivavano da varie facoltà e alcuni anche dal mondo del design, abbiamo messo 30 marchi di aziende e 30 prodotti iconici, i più consolidati. C’erano tutti i grandi marchi del design e poi c’era IKEA: l’unico nome che conoscevano era proprio IKEA.
Questa è la realtà. Poco tempo fa ci sono stati gli esami di terzo anno di design industriale. Due o tre ragazzi hanno presentato dei progetti straordinari perché non erano tanto prodotti, quanto idee. Io dico sempre che non abbiamo bisogno di nuovi prodotti, abbiamo bisogno di nuove idee. Un altro studente ha presentato un progetto che nel mercato c’è da vent’anni. Io ho guardato il docente e ho detto: “scusa, ma mentre sviluppava il suo progetto, perché non si è intervenuto?”.
Davide
Il tema è la totale ignoranza. L’ignoranza genera evidentemente superficialità, che a sua volta genera presunzione, perché tu presumi, e poi per affermare ciò che presumi diventi anche arrogante.
Quando l’insegnamento manca di questa sostanza, è solo nozione.
Giulio
Sono pienamente d’accordo, è un mero racconto senza arte né parte, non è efficace.
Davide
Ecco, quello di cui io sento la mancanza è di veri insegnanti o maestri, che non ti insegnano l’arte ma ti insegnano come coltivare il fuoco che poi potrà dare arte.
Giulio
Certo, guarda che fare gli insegnanti veri è un mestiere difficile.
Davide
Io lo vedo anno dopo anno all’università, sento veramente che sono sempre meno.
Giulio
Però sai, dall’altra parte vedi la voglia di apprendere, vedi studenti che ti chiedono perché la domenica la scuola è chiusa, vedi la voglia di lavorare da parte di questi giovani, nella moda soprattutto ragazze asiatiche o gli indiani. Gente che propone idee.
Oggi non abbiamo più bisogno di oggetti, abbiamo bisogno di qualcosa che capti la nostra attenzione e soprattutto, a chi ci deve promuovere o vendere questo prodotto, dare la possibilità di fare un racconto.
Davide
Abbiamo perso il valore del simbolo e della metafora che genera racconto. Se tu leggi i dialoghi di testi tipo Il cortigiano, ti rendi conto che tutto il loro parlare era simbolo e metafora, era una narrazione quotidiana e costante.
Giulio
Per me il linguaggio dell’immagine è fondamentale perché una buona immagine viene capita dall’indiano, dal cinese, dall’europeo. Però ci deve essere anche il contenuto: con Instagram, chi legge più oggi?
Davide
Si sta sempre di più riducendo il senso alto della parola, sta perdendo completamente la funzione che aveva.
Giulio
Però ecco c’è anche il ritorno alla voglia di leggere. In America ad esempio, in California specialmente, c’è un grande ritorno della carta stampata, soprattutto per il pubblico giovane. Non è un caso che Mondadori ceda le riviste e acquisisca sempre più case editrici, vuol dire che c’è un business. Il segnale di un cambiamento c’è. Poi quali saranno i tempi, questo è difficile da dire. Ma voglio essere positivo.
Davide
Allora intanto grazie.
Giulio
Grazie a voi.
Davide
Ti è piaciuto?
Giulio
Molto sì, penso che parlare con le persone di qualità vuol dire sempre imparare.
Davide
E ci lasciamo con l’idea di ritrovarci sul tema del linguaggio. Perché l’artigianato vive il linguaggio. Quando vai dal brianzolo ad esempio e si parlano tra di loro, devi capire il codice. E quelle parole sono quel gesto, sono quel materiale, sono quel modo di affrontare il materiale. Se perdiamo quello, abbiamo perso tutto. Allora bisogna che facciamo un ragionamento, proprio sul concetto di reinterpretazione.
Giulio
Soprattutto, ripeto, dare dignità a un certo tipo di lavoro. Tu facevi riferimento appunto all’artigiano della Brianza che purtroppo in certi casi è un po’ una razza in via d’estinzione: obiettivamente per molti artigiani era un riscatto sociale il fatto di far laureare il figlio; altri sono arrivati a fine corsa, per età o altro, e hanno deciso di chiudere il laboratorio. Devo dire però che, ad esempio, è stata fatta da Federlegno una scuola per artigiani a Lentate, che ha un numero notevole di iscritti, però vi porto questo esempio: due settimane fa mi chiama un dirigente di alto livello che lavora in una grande industria, mi dice: “sai, volevo chiederti un’informazione, perché mio figlio ha fatto il liceo artistico. Noi pensavamo che potesse fare architettura o altro, ma lui alla fine ha detto ‘no papà, io voglio fare il falegname’”. Il padre rimase scandalizzato. Ma per quale motivo?! Prima di tutto, abbiamo bisogno di persone che si sporchino le mani; secondo, fare il falegname in un certo modo oggi, ha più dignità di tanti altri lavori e ne abbiamo bisogno come il pane. Purtroppo c’è ancora questa mentalità del fatto che se lavoro con la testa sono un genio, ma se lavoro con le mani no…
Davide
Quando verrai a casa ti mostrerò una collezione di dizionari dal ‘500 ad oggi: italiano-modenese, italiano-bolognese, italiano-piemontese etc. Per esempio, vai a vedere sul dizionario bolognese la parola “meccanico”: “uomo spregevole”. Quando si parla di considerazione popolare di un mestiere e di come questa evolve nel tempo.
Giulio
Questa è una certezza.
Bene, grazie, grazie infinite!