Dialogo con Gian Piero Brunetta – #10

Davide e Gian Piero si sono sentiti per telefono. Davide ha insistito: nessun collegamento video, solo voce. Voce a tratti in dialetto veneziano, per la precisione.

Davide

Buongiorno, visto che puntualità?

Gian Piero
Caspita! È il principio del Kapò, che diceva: “se dico 8.32 voglio 8.32, non 8.31”. 

Anch’io sono stato educato così. Mio padre doveva prendere tutti i giorni il vaporetto alle 7.27 per arrivare alle 8 in ufficio. Calcolava 7.27 – 7.42, poi 15 minuti per arrivare in ufficio, e arrivava 3-4 minuti prima. Siccome i vaporetti al Lido erano perfetti, mi ha inculcato un senso del tempo, dei minuti, del valore. 

 

Davide
Devo dire che anch’io sono molto attento. Non a caso si chiama puntualità, perché è il punto, no? Essere puntuale è essere nel punto della cosa, fare il punto. Tra l’altro ha a che fare con un linguaggio e una visione geografica, di orientamento. Fare il punto di un discorso, fare il punto di una relazione, ma fare il punto è anche quando sulle carte nautiche si fa il punto. 

 

Gian Piero
Assolutamente. Qualsiasi viaggio che ho fatto in macchina, da Padova al Festival di Cannes o a Parigi, ho sempre tentato di fare il punto su cosa mi sarebbe piaciuto. Da Padova per andare a casa di mia figlia in Svizzera, ho sempre ipotizzato il tempo ottimale.

 

Davide
Ecco, questa cosa secondo te rientra in un concetto di cura? Secondo me sì, perché ci si prende cura del tempo

 

Gian Piero
Sì, del proprio tempo: sapere come gestirlo, amministrarlo… soprattutto se hai questa capacità di fare più cose insieme, di tentare di complicarti la vita mettendo insieme più cose nello stesso tempo, non una per volta. Allora, l’amministrazione del tempo diventa assolutamente necessaria e fondamentale.

 

Davide
Perciò diventa curatela. 

 

Gian Piero
Diventa curatela, sì. Cura del tempo a disposizione per rispettare anche tutti i programmi che questo tempo prevede.

 

Davide
Questo “prendersi cura del tempo”, per adesso l’abbiamo declinata con un tempo misurato, no? Spazio-tempo. Però, esiste un prendersi cura di un tempo interiore. Ecco, per ti, cossa xela sta roba?

 

Gian Piero
Per me è cercare di mantenere degli equilibri interiori, nonostante la vita poi ti bombardi di cose impreviste, di traumi, di dolori. E quindi,

il tempo interiore è il tempo in cui ti misuri con il dolore, ma con la voglia comunque di trovare in qualsiasi momento il punto di luce. Per me è sempre stato questo, la ricerca in ogni giorno, anche in momenti particolarmente difficili, di vedere un punto all’interno di me stesso che mi conciliasse con la vita esterna. 

 

Davide
Tu parlavi di un punto di luce. Evidentemente la ricerca di equilibrio è una costruzione costante, non è che trovata l’equazione adesso so come si fa. 

 

Gian Piero
No, è anche una sorta di disciplina… Io sono una persona indisciplinata e abbastanza anarchica per tante cose, però mi sono dato da un certo momento della vita una disciplina interna che mi consentisse di avere questi sguardi e momenti positivi, e di cercarli come elementi che mi dessero delle spinte per quello che facevo. 

 

Davide
Questa cosa della disciplina e della regola sembra il motto dei certosini “servat regulam et regula servabit. E devono essere confortate quotidianamente, o sbaglio? 

 

Gian Piero
Assolutamente. Io ho avuto la fortuna di apprenderla nel momento in cui stavo laureandomi.
Prima di laurearmi mi è stata data la possibilità, in un momento molto complicato della mia vita in cui ero sul punto di sposarmi e avevo una tesi di laurea molto grossa, di collaborare al Dizionario del Palazzi con altri quattro studenti di Gianfranco Folena e mettere a posto, aggiornare, il Dizionario. Allora mi sono imposto proprio delle discipline orarie: in certe ore devi in qualsiasi condizione scrivere queste pagine e fare questo numero di voci, perché se no non ce la fai a rispettare i tempi.
Ho imparato da questo lavoro di “rimessa in ordine”, sapendo poco, ma imparando giorno per giorno come si faceva e questo poi mi è servito per tutto il resto della vita.

Davide
Certo che, oltre la disciplina che ti ha permesso di portare a termine il lavoro, aver iniziato come lavoro con il mettere a posto un dizionario ha significato immergersi nel senso profondo delle parole, nella verità delle parole, nell’etimo delle parole.
Questa è una delle cure secondo me più importanti: l’attenzione massima nell’esprimersi in maniera compiuta, dove no ghe xe ombra del rio dentro de ti. Questo mi interessa molto. 

 

Gian Piero
Sì, devo dire questo lavoro mi ha insegnato soprattutto il peso della parola e l’importanza proprio della virgola. Sposti una parola e può cambiare il senso. Esistono dei sinonimi, però ogni sinonimo pesa in modo diverso sul senso della frase. Questo è stato determinante poi nella mia scrittura successiva: ho sempre avuto dentro di me il senso dell’uso di parole destinate a qualcuno che volevo capisse quello che dicevo. Le parole sono delle chiavi d’accesso per capire ciò che ti sta intorno.

 

Davide
Questo è molto importante, ed è uno dei punti che noi, con i dialoghi e non solo, portiamo avanti nel progettare: l’attenzione alla parola e perciò alla frase tutta… Perché le parole sono cose.

 

Gian Piero
Assolutamente: lo senti come una nota, senti che quella parola stona, è di un registro più alto o più basso rispetto alla coerenza della frase. Io, che sono stonato di natura, ho imparato facendo proprio questo lavoro sul lessico: la coerenza armonica della frase, il senso che può cambiare se tu usi una parola al posto di un’altra.

 

Davide
Parola e suono, ma anche parola e immagine. Parlami di questo legame tra parola e immagine che poi alla fine è quello che tu hai portato avanti per tutta la vita.

Gian Piero

Sì, la parola ha una potenza evocativa straordinaria dentro ognuno di noi. L’immagine si è formata per secoli e millenni sulla base della parola.
Le immagini che poteva vedere l’uomo del ‘200 nella sua vita, per esempio in  chiesa, erano pochissime. Oggi in un giorno ne vedi milioni col tuo telefonino, ma allora era la parola che creava l’immaginario, che ti faceva viaggiare, e l’immagine arrivava a supporto.
Ma pensiamo a quanto ci mette in crisi, a quanto ci coinvolge, e quanto è drammatico solo invocare la parola “genocidio” oggi. È una parola che vorresti che fosse tabù, vorresti non tirarla fuori, però la realtà delle cose che hai intorno ti obbliga a rifletterci. 

 

Davide
Ti obbliga a riflettere se questa parola corrisponde esattamente al senso profondo e terribile per cui è stata creata. 

 

Gian Piero
Sì, le si dà un nuovo campo semantico, ma ti mette di fronte alla necessità di riutilizzarla contro voglia. E devi comunque parlarne, devi porla su un tavolo.

 

Davide
Sì, deve essere motivo di discussione, possibilmente di dialogo. 

Parliamo del cinema, che è uno degli amori della tua vita. Quello che ho sempre sentito in te è l’energia amorosa con cui tu andavi a indagare, ad analizzare, a ricostruire. Tu sei stato un ricostruttore di storie. 

 

Gian Piero

All’inizio ho sentito una specie di chiamata interiore. Cosa vuoi veramente fare? Cosa ti interessa veramente tra le tante cose che ti affascinano? Sentivo che dovevo tentare di occuparmi della cosa che in quel momento mi interessava più di tutte e che non c’era nell’accademia italiana, cioè di cinema. Sono andato a chiedere una tesi di cinema a un docente, un pedagogista padovano che amava il cinema e aveva un incarico di storia del teatro e dello spettacolo. 

 

Davide
La storia del teatro e dello spettacolo: la parola cinema non c’era dentro? 

 

Gian Piero
Non c’era: l’unica cattedra di cinema l’aveva ottenuta Chiarini nel 1963, ma a Padova non c’era.

Io faccio questa tesi sulla formazione del pensiero e dell’idea di Neorealismo negli anni ‘30 in Barbaro e Chiarini, e quando mi laureo, 20 giorni dopo, viene istituito l’insegnamento di cinema a Padova. Quindi è stata una coincidenza straordinaria, che mi ha proiettato. Volevo scrivere e insegnare come mio ideale, occuparmi di arte contemporanea e scrivere di qualsiasi cosa, mi piaceva. Ma il cinema, avendolo vissuto tutti i primi vent’anni della vita a Lido, era un richiamo, era una sirena straordinaria per me. 
Quindi, quando ho cominciato a occuparmi di cinema, contemporaneamente e anche da subito mi attiravano i film delle retrospettive veneziane, i film dei cineclub, i film che venivano proiettati in condizioni terribili, ma che erano pieni di forza, ti comunicavano una potenza visiva, espressiva, drammaturgica, l’invenzione di un linguaggio che non c’era, di un linguaggio che poi sarebbe stato l’arte del Novecento. Questo lo sentivo.
Fin dall’inizio delle mie ricerche ho sentito l’importanza anche di pensare che c’era un patrimonio, soprattutto del cinema muto, che era scomparso e che bisognava invece riportare alla luce. Quindi, proprio fin dalle mie prime lezioni, mi sono occupato di questo. Poi ho avuto la fortuna di assistere al Festival di Grado nel 1970-72 in cui venivano mostrati una quantità enorme di film trovati nella collezione di un monaco svizzero che si chiamava Jolie e che aveva lasciato 1800 film. Davide Turconi, che li aveva salvati e che ha fatto il Festival di Grado, li ha proposti al centro sperimentale, che ha detto “no, non ci interessano”. Allora lui li ha venduti in Inghilterra. Però li ha mostrati per tre anni a Grado.

Questo per me è stato un momento decisivo, perché ho visto decine e decine di muti italiani in condizioni terribili, ma vedere per la prima volta Lida Borelli e Francesca Bertini è stato un momento che mi ha detto “devi incamminarti su questa strada, tentare di ricostruire una storia che è sparita e usare tutti i mezzi per ricomporla”. Nella mia megalomania giovanile, insomma, mi sono posto da subito il problema di scrivere una storia globale, una storia totale. 

 

Davide
Questa tensione della storia globale, proprio perché hai usato questa parola, era non solamente una spinta verso la conoscenza che era dimenticata, ma era un rammendo culturale della storia tutta, in questo caso italiana. È proprio questo che mi interessa, il rammendo attraverso il cinema. 

 

Gian Piero
Sì, da subito devo dire mi sono posto un insieme di problemi che mi complicavano la vita perché non avevo gli strumenti per capire l’economia, per capire le censure, non c’erano punti di riferimento bibliografici. Ma vedevo che ogni atto cinematografico con cui entravo in contatto, sia vedendo dei frammenti di film, o dei film, ma anche riviste, giornali, manifesti, memorie, tutto questo aveva a che fare con un contesto di un’Italia che si stava trasformando. Questi frammenti di film, solo a guardarli così nella loro immediatezza, erano pieni di storia e questo mi spingeva a moltiplicare gli strumenti da mettere in campo. Non era così semplice in quel momento, perché i film non c’erano, bisognava andarli a cercare all’estero. Io sono andato soprattutto alla Library of Congress, a Rochester, a Los Angeles, a Londra, a Parigi, a Milano, a Roma. 

Però ogni film comportava una quantità di altri documenti che connettevano, ricucivano questo frammento con un altro elemento significativo della storia d’Italia, di quel momento. Ne raccontavano una sfaccettatura e allora ho cercato di scrivere una storia di storie: era una bella sfida, una bella avventura, il piacere di fare qualcosa che non c’era. Con tutti i difetti, i rischi e i vuoti che una cosa del genere poteva avere, ma anche con l’idea di raccontare un oggetto poliedrico. Di raccontare la storia degli intellettuali, del cinema, degli spettatori, delle istituzioni, della nascita dei primi produttori. A un certo momento è stato determinante nei miei viaggi, soprattutto americani, incontrare gli archivi, i “National Archives” e i documenti relativi ai rapporti diplomatici e politici tra l’Italia e gli Stati Uniti dagli anni ‘30 nei confronti del cinema. Ho raccolto una documentazione enorme, che poi ho pubblicato a piccole gocce, su tutta l’evoluzione dei rapporti tra Washington e Roma con il cinema negli anni ‘30, fino all’embargo del 1938, e poi nel dopoguerra, quando Andreotti è riuscito a salvaguardare il cinema italiano dall’attacco americano, consentendo di farlo riprendere grazie anche ai capitali americani che lui era riuscito a trattenere in Italia nell’immediato dopoguerra.

 

Davide
Questo sicuramente, all’interno del dialogo, è una cosa che incuriosirà i lettori: il momento in cui subito dopo la guerra c’era la possibilità che il cinema italiano, da quello che tu stai dicendo, potesse essere spazzato via, giusto?

 

Gian Piero
Sì, anzi: i dirigenti e alcuni politici americani diranno subito nell’immediato dopoguerra “il cinema, il mercato italiano è uno dei very best in Europe, ma il cinema italiano è stato fascista e deve essere eliminato”. Questo proprio nell’immediato dopoguerra.
Allora scopri che Andreotti, come difensore di un cinema che doveva rinascere in qualche modo, accettava tutti i vincoli che gli mettevano gli americani, ma poi riusciva a far passare delle leggi che trattenevano in Italia quei capitali, aiutando 

a far ripartire la grossa attività di Cinecittà. Quindi la rinascita della Hollywood sul Tevere è dovuta anche a delle risorse che restano e tornano utili negli anni ‘50, una volta finito il Neorealismo e così modificato il cinema italiano, riaprendolo a tutti i generi e a un nuovo capitolo della sua storia.

Il Neorealismo però è comunque una stagione straordinaria che cambia l’assetto del cinema mondiale e nasce in assenza di tutto. La cosa straordinaria del Neorealismo è che non ci sono soldi, non ci sono produttori, non ci sono attori, non ci sono mezzi, tutto è distrutto, eppure c’è questa forza che fa rinascere il cinema italiano e lo impone nel mondo, lo impone come modello. Io ho spesso usato l’immagine che il Neorealismo diventa come il meridiano di Greenwich per il cinema mondiale. Ha una breve durata però influenza il cinema di tutti i paesi, anche quello americano. 

Poi appunto quando invece la produzione riprende, si cominciano le coproduzioni, si cerca di dar vita anche a un sistema divistico. Si investe nel cinema e il pubblico comincia a dare in maniera importante al cinema, perché nella metà degli anni ‘50 il pubblico nelle sale raggiunge gli 800 milioni di biglietti venduti.
Oggi, insomma, col Covid eravamo sui 30-40 milioni… 800 milioni è un momento di massimo splendore spettatoriale per il cinema italiano. E questo rinasce perché tutta la macchina produttiva si mette in moto in maniera scalcagnata, improvvisata, ma con una forza che viene anche da questa ripresa, grazie al Neorealismo, riaprendo un dialogo di diplomazia culturale con il resto del mondo.

 

Davide
Questa diplomazia culturale fa sì che l’Italia faccia dimenticare molto velocemente il passato e si ponga come riferimento. Perché poi a questo corrisponde la rinascita economica, e tutto quello che sappiamo, evidentemente…

Gian Piero
Sì, devo dire ovviamente che giocando pro domo mia penso che il cinema in questo abbia avuto un ruolo, magari non primario, ma un ruolo lo abbia giocato.

Era un alimento. Io ho sempre pensato che nel Dopoguerra per un po’ di anni il cinema fu l’alimento immateriale più importante per la popolazione italiana, che aveva bisogno di tutto. Un alimento immateriale che consente la ripresa delle capacità di sognare.

 

Davide
Io mi ricordo i nonni – ma quando dico i nonni non intendo i miei, i nonni in generale – che sapevano e cantavano le arie di Verdi e di Puccini. Perciò anche il teatro… l’Italia penso sia il paese che ha più teatri al mondo, più di 1.300.
Ecco, nel Dopoguerra il cinema ha fatto lo stesso, ha fatto quello che aveva fatto il teatro prima.

 

Gian Piero
Pensa solo ai cinema parrocchiali.

 

Davide
Esatto, volevo arrivare proprio a quello, meravigliosi!

 

Gian Piero
Nel dopoguerra nascono 5.000 cinema parrocchiali.
Uno per ogni campanile! Sì, una diffusione straordinaria, e con una distribuzione capillare anche di film a 16 mm della San Paolo, quindi film molto spesso americani, un po’ tagliati, però controllati e sostenuti. La Chiesa ha un ruolo non solo di censura, ma anche di spinta per il cinema.

 

Davide
Per come parli, è vero che il cinema è uno dei tuoi grandi amori, ma è altrettanto vero, e mi riferisco a certe parole che hai detto all’inizio, che tu avevi una grande sensibilità e perciò attrazione e perciò amore per l’arte, nel senso ampio della parola. 

 

Gian Piero
Il mio primo vero innamoramento universitario per un docente è stato per Bettini, prima che poi scoprissi la lingua italiana con Folena. Bettini (n.d.r. Sergio Bettini, storico dell’arte) faceva dei corsi che andavano dagli ziggurat babilonesi fino alla scuola di Vienna. Ti faceva fare dei viaggi estetico-iconografici straordinari, che per un ragazzo che aveva fatto un liceo di media caratura erano delle aperture al mondo eccezionali. Una volta ci ha portati a fare un lungo viaggio lungo la Croazia, l’Istria, la Dalmazia per vedere i resti, i residui, della cultura veneto-bizantina lungo le coste Dalmate, quindi ci faceva arrampicare su per le chiese di Cattaro o di altre città dell’Istria, individuando degli elementi che segnavano la continuità tra due culture, due civiltà. Mi si aprivano continuamente dei mondi con lui.

Queste sono persone straordinarie che non hanno limiti alle loro curiosità. Pur mantenendo delle fortissime competenze specifiche, poi sono aperti, dialogano con le altre discipline.

 

Davide
Sai cosa penso? Penso che quando si è così – e, diciamo, sia tu che io tendiamo a questo tipo di apertura, no? – è come quando incontri uno che sa cinque o sei lingue e poi gli viene facile impararne altre cinque. Perché, in realtà, è vero quello che tu hai detto sulle competenze specifiche. Ma è anche evidente che questo scantonamento, questo uscire dai cantoni – perché il canton ti limita, no? – ti abitua anche a una connessione di idee, di immagini, di ragionamenti e perciò di concetti.

 

Gian Piero
Io tengo sempre come modello una frase che usava Folena che diceva “io pratico l’indisciplina della disciplina”.

 

Davide
Perfetto, esattamente così, praticare l’indisciplina della disciplina è una metafora della costante ricerca.

 

Gian Piero
L’essere sempre disponibili e provare meraviglia anche di fronte a delle cose che incontri e che non avevi previsto di incontrare, e quindi di avere sempre un’apertura verso altre dimensioni.

 

Davide
Perciò essere sempre curiosi.

 

Gian Piero
La curiosità come guida, come fiaccola. E anche non perdere mai il daimon. Questa è un’altra cosa che io spero di mantenere, se possibile insomma.

 

Davide
Il daimon è molto importante. Ripropone l’immagine dell’indisciplina, perché il daimon è diablo, è duplice, per cui costantemente ti mette davanti a una scelta. Oltre che essere motore di energia, ti mette davanti al doppio. A me ha sempre affascinato che si faccia elettricità con un polo negativo e uno positivo. Così come il nero e il bianco, lo yin e lo yang e come si uniscono. È una cosa meravigliosa.
Ti faccio l’ultima domanda. Tutti i discorsi che abbiamo fatto, tutto questo è stato, diciamo, l’alimento per i grandi dolori che tu hai attraversato. Immagino.

 

Gian Piero
Eh sì, è stato anche il farmaco.

 

Davide
Siccome ne sono stato testimone e ti sono stato vicino, so quanto dolore hai passato e con quanta forza ed energia lo hai affrontato, vorrei che chiudessi con questo.

 

Gian Piero
Sì, ho avuto la fortuna di fare in ogni momento della mia vita quello che mi piaceva, e contemporaneamente sono stato colpito in modo profondo e periodico da grandi dolori, da cose che lasciavano un segno.
Come ho cercato di proteggermi? Intanto non perdendo mai la fede in quello che facevo. Ma anche utilizzando ogni giorno per delle attività che mi servivano come farmaco e come guida per andare avanti, andare avanti anche per gli altri.
Mio figlio ha lottato per otto anni fino all’ultimo momento. Poi non ce l’ha fatta, ma l’ultimo momento della sua vita ha pensato di farcela, di tornare a insegnare… e mi ha trasmesso una forza per tutti gli anni successivi. Non potevo permettermi di star male perché dovevo occuparmi degli altri: dovevo occuparmi anche di me stesso, ma prendermi cura della famiglia, mostrare che comunque la vita continua.

 

Davide
E questa è la cosa fondamentale, perché tu diventavi il pilastro, il riferimento, e davi senso al concetto di famiglia.

Gian Piero
Ho avuto poi la fortuna, nella grande tragedia che ci ha colpiti, di avere la possibilità di vivere con il mio nipote, che è il dono che mio figlio ci ha lasciato, e quindi fino a quando ho potuto ho cercato di fare ogni tipo di esperienza culturale, gastronomica, turistica insieme a mio nipote, andando al cinema con lui. È stato il compagno necessario per il mio piacere di tornare al cinema e quindi ne ho tratto molto alimento interiore, molta forza vitale e senza di lui probabilmente la nostra vita sarebbe stata diversa.

 

Davide
Questo è indubbio. Hai aggiunto anche la parola “gastronomica”. Che tu ti sia ricordato di questo è, diciamo, uno straordinario sintomo di profonda vitalità e di coltivazione del daimon. Perché vuol dire avere il gusto dell’alimento, il gusto dello stare insieme. 

 

Gian Piero
Sì, quando l’ho portato con me a Bruxelles, a Parigi, gli ho fatto assaggiare la soupe à l’oignon pur sapendo che i formaggi non gli piacevano… Insomma, l’ho iniziato a delle cose gastronomiche trovando in lui un ideale compagno di giochi. 

 

Davide
Mi sembra una bellissima chiusa che dà veramente un profondo valore al concetto che abbiamo detto del prendersi cura.
E mi è piaciuto moltissimo questo dialogo, spero che ve sia piasù anche a ti.

 

Gian Piero
A me è piaciuto moltissimo, anche perché siamo entrati subito dentro, senza neanche salutarci… 

 

Davide
No, siamo partiti subito così, da fare il punto alla puntualità… Ma vedi, quando c’è l’abbandono nell’azione è fantastico, perché tu cominci subito a noar (nuotare). Non c’è bisogno di dire se butemo, se butemo… semo za in acqua!

 

Gian Piero
Questo fa parte anche della nostra amicizia, del fatto che ci conosciamo da tanti anni. 

 

Davide
Si ma non sono gli anni, è la qualità di come ci conosciamo.

 

Gian Piero
Mai di basso profilo!

 

Davide
Mai! Mai, ostia, mai!

 

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